I gesti di Elio Fiorucci emergono come segni tangibili di una creatività che ha scosso l’ordinario, mentre le parole dei testimoni catturano il fuoco delle emozioni di allora. È un rituale in cui i ricordi danzano con le parole, azioni di un’epoca in cui l’arte, la passione e la ribellione si univano in un unico movimento. La mostra “Elio Fiorucci” che inaugura oggi presso La Triennale di Milano, curata da Judith Clark e allestita da Fabio Cherstich, diventa il palcoscenico di questa celebrazione, rivelando come l’arte possa trasformare la realtà e ispirare il cambiamento

Words DOMENICO COSTANTINI

Supervisione storica FRANCO MARABELLI

Elio Fiorucci non è stato soltanto un designer; è stato un catalizzatore di creatività e un rifugio per l’autenticità. Nei suoi spazi, ogni performance si muoveva come un atto di ribellione, un afflato di libertà che sfidava le convenzioni e abbracciava la sperimentazione. Maurizio Turchet, figura centrale di quel fervido panorama culturale, ricorda come la sua interazione con artisti come Juan Hidalgo e Demetrio Stratos abbia segnato un passaggio fondamentale: “Era naturale suggerire a Elio di ospitare queste menti creative nello spazio Fiorucci. Era un rifugio per tutto ciò che era autentico e rivoluzionario.”

ZAJ, Spazio Fiorucci, via Torino, Milano, 1975. Nella foto: pezzo di Walter Marchetti titolo “J’aimerais jouer avec un piano qui aurait une grosse queue”, performer Juan Hidalgo

Il negozio in Via Torino, con la sua cascata che accoglieva i visitatori come un miraggio tropicale, non era solo un luogo di acquisto ma un’esperienza sensoriale totale, un rituale che trasportava i partecipanti in una dimensione altra. Franco Marabelli, direttore creativo di Fiorucci, evoca l’atmosfera onirica di quegli spazi: “Quando le luci si abbassavano, la stanza diventava quasi un non luogo, acquisendo un’aura sacra.” Le performance, come atti di magia, interrompevano la quotidianità, creando un contesto di esplorazione e trasgressione.

Franca Soncini narra un episodio audace, in cui la spontaneità di una performance si trasformò in uno scandalo: “Sperimentare senza filtri era nel DNA di Fiorucci. Queste performance erano una danza di simboli, e l’applauso finale fungeva da esorcismo sonoro.” Ogni gesto e ogni suono si compenetravano in una ricerca di significato, mentre la folla veniva catturata in un incantesimo collettivo.

Zaj, “J’amerais jouer avec un piano qui aurait une grosse queue” di Walter Marchetti, esecutore: Juan Hidalgo, Spazio Fiorucci, Milano, 1975 Mostra e pubblicazione MUSICHE.
Demetrio Stratos esegue i “Sixty-Two Mesostics Re Merce Cunningham” di John Cage allo spazio Fiorucci di via Torino, Milano, set aprile, 1975

Paolo Buggiani, con le sue tute di “Wearable Art”, solleva un interrogativo cruciale: “Cosa significa indossare un’opera d’arte?” Queste tute, dipinte a mano, non sono solo indumenti, ma manifestazioni di un ideale, un ponte tra il corpo e l’arte, dove l’effimero si fonde con l’idea di permanenza. “L’arte ‘effimera’ e quella ‘più duratura’ si avvicinano,” afferma Buggiani, in una riflessione che ricorda l’immanenza del gesto creativo.

WEARABLE ART, Milano, 1978. Photo courtesy Archivio Fiorucci.

E poi ci sono le ombre di Keith Haring, il cui passaggio nel negozio di Fiorucci nel 1983 ha lasciato un’impronta indelebile. Daniela Morera ricorda l’energia vibrante di quel momento: “Keith voleva portare la sua arte a tutti, rompendo le barriere del mercato. L’arte diventava un inno alla libertà e all’inclusione.” La performance di Haring, una vera e propria festa di colori e ritmi, rappresentava la fusione perfetta tra l’estetica di Fiorucci e il suo spirito di ribellione.

Keith Haring, Milano, Ottobre 1983. Photo courtesy Archivio Fiorucci.

L’apertura della mostra non è solo una celebrazione del passato, ma un invito a riflettere sulla continua evoluzione della moda e dell’arte. Fiorucci rimane un simbolo di audacia, di un’epoca in cui ogni espressione creativa sfidava i confini e abbracciava l’ignoto. Un viaggio che continua, dove ogni visitatore può scrivere il proprio capitolo, contribuendo a una narrazione senza fine.