La ricerca della felicità, sia individuale sia collettiva, costituisce una delle due fondamentali spinte propulsive che hanno accompagnato il viaggio delle civiltà imperniate sulla scrittura, essendo l’altra molla costituita dalla ricerca dei mezzi e delle strategie per evitare, o diminuire, la sofferenza e l’ingiustizia.
Tuttavia nelle civiltà extraeuropee, e anche nelle fasi precedenti di quella che continuiamo a denominare, ambiguamente, società ‘occidentale’, l’orientamento a una vita felice, o quantomeno il meno possibile affetta dal dolore, sia fisico sia spirituale, si è strutturato in complessi armonici in cui rientrano anche altri irriducibili fattori. Il fascio di queste motivazioni si colloca nel contesto globale del rapporto dell’individuo con l’umanità, la natura e la divinità; esso mirano all’equilibrio dinamico della bellezza e della bontà, di cui è suggello l’ideale greco della kalokagathìa , intesa come sintesi armoniosa, ma anche piena di vitali e creative dissonanze, di bellezza e bontà.
Invece nella società del benessere tipica delle società tecnologicamente avanzate che hanno conquistato gran parte del pianeta a partire dall’Europa e dal Nord America, nel secondo dopoguerra si è progressivamente imposta la tendenza che Herbert Marcuse in Eros and Civilization del 1955 aveva colto nel suo nascere, e poi lucidamente sottoposto a serrata critica in One-Dimensional man nel 1964: la tendenza al costante generalizzarsi dell’ambito applicativo del principio di prestazione (performance) a tutte le sfere dell’esperienza vissuta, quale unico criterio valoriale per tutti i membri della società. Marcuse, e con lui gli altri esponenti della cosiddetta Scuola di Francoforte (in particolare Adorno e Horkheimer), intuì dunque che nella società tecnologica e affluente le dinamiche sociali sarebbero risultate sempre di più permeate da questa logica monocorde, ossessiva, che schiaccia l’essere delle persone sotto il giogo dell’imperioso avere, e produce rapporti sempre più serializzati.
Questa diagnosi dei Francofortesi pare proprio che calzi a pennello sull’Europa e l’America del 2016: l’uomo unidimensionale, chiuso nella sua limitata e limitante specializzazione e in essa condannato ad avere successo o a essere schiacciato, privo della possibilità di coltivare le sue inclinazioni, si trova nell’alienata situazione di ricercare ossessivamente la felicità in un ristrettissimo ambito e di esperire concretamente lo sfuggire della felicità a ogni suo tentativo di afferrarla. La felicità autentica, infatti, non la si raggiunge con l’immediata soddisfazione delle pulsioni, o peggio ancora con un miope voler sovrastare gli altri, che a fianco a noi sono impegnati nella loro corsa, verso un comune traguardo. La felicità non è infatti una situazione statica, ma un cammino dinamico di attuazione delle potenzialità inscritte in ciascuno di noi, che richiede la costruzione dei processi dell’accordo intersoggettivo, nell’incessante muovere da una situazione iniziale di conflitto e disarmonia, verso un sempre superiore più ampio spazio di compossibilità, in cui quello che prima era incompatibile diventa invece compossibile. Avvertire di aver portato anche solo un piccolissimo contributo al passaggio dalla disarmonia all’armonia dà una grande senzazione di felicità, che non di dimentica mai.
Ma proprio questo cimento interpersonale è azzerato dal dominio sempre più dispotico del principio di prestazione. Si verifica così un completo rovesciamento del rapporto tra apparenza ed essenza, tra piano di superficie e piano di profondità. Per un verso la soddisfazione dei desideri si presenta come sempre più accessibile a un gran numero di persone, cui è promessa, dall’anonima e onnipervadente religione del narcisimo assoluto, la facile realizzazione dei propri bisogni e desideri. Per l’altro verso, invece, la loro fruizione, e tra di essi quella dell’originario desiderio fondamentale di piena appagatività che in tutti gli alti desideri è sotteso (i Greci chiamavano ciò Eudamonìa, i Romani e poi il Medioevo cristiano Vita beata) si allontana beffardamente dai singoli; questo avviene non solo dopo il conseguimento della meta di volta in volta anelata, bensì nell’atto stesso dell’afferramento di quella che appare una pienezza di senso e che invece, nel momento dell’afferrarla, si palesa scavata da un vuoto centrale. Ciò che ci si ritrova in mano, allora, non è l’istante felice, ma l’evidenza di un vano, inconcludente girare intorno al proprio Sé, che ci mette dinanzi agli occhi sempre nuovi miraggi, e ci inquieta con sempre nuovi bisogni, effimeri e inconsistenti.
A ben vedere, un tale autoinganno generalizzato potrebbe essere svelato molto facilmente, se i mezzi di persuasione di massa non fossero così potenti da lambirci, ghermirci e infine dominarci in ogni momento della giornata, entrando anche nella nostra attività onirica notturna. Un’intelligenza extraterrestre che osservasse la vita metropolitana dall’esterno del pianeta, e che nel contempo avesse la capacità di calarsi nelle profondità del vissuto degli abitanti delle anonime megalopoli, non se ne sorprenderebbe affatto. Egli avrebbe presto appreso che quanto è sempre stato detto dai pensatori di tutti i tempi e di tute le civiltà: la condizione umana è sempre relazionale e il suo senso si dispiega nel rapporto dell’individuo con gli altri e con l’ambiente circostante, sia sociale sia naturale; a ciò si aggiunge, come optional  – per me il più prezioso –per chi ha una fede religiosa,  il riferimento alla vita ultraterrena, la luminosa vita beata del banchetto celeste, musicato da Mahler nella sua quarta sinfonia. In ogni modo, l’umana realizzazione non è possibile isolarla da questi raggi intenzionali di senso, pena il suo atrofizzarsi in un alienante stato di solipsistica autodeificazione, in cui ciascuno apparentemente persegue il suo ‘proprio’, differenziandosi da tutti gli altri e ponendo innanzi a loro i tratti della sua presunta, in realtà fittizia, originalità. Ciò che avviene è proprio il contrario di ciò che appare: volgendosi ciascuno a realizzare le inclinazioni inscritte nell’io individuale, in effetti ci si volge tutti insieme verso le stesse mete, poste innanzi a noi dai persuasori occulti che governano i Mass media. A questa situazione quasi comica, si aggiunge la limitazione esterna, data dal fatto che le cose che tutti perseguono sono accessibile sempre e solo a una parte della società, di modo che l’esito è una guerriglia generalizzata, un ‘tutti contro tutti’ celato dall’ipocrisia delle buone maniere. Per i soccombenti naturalmente il risultato è l’infelicità, ma almeno costoro possono essere parzialmente confortati dall’illusoria convinzione che la loro infelicità sia dovuta al desiderio rimasto frustrato. Invece ai vincenti è riservata l’amara sorpresa che quell’appagamento è intrinsecamente impossibile, perché ricercato al di fuori di una decisione per l’autenticità che liberi la persona dai falsi bisogni e dalle connesse false promesse di standardizzata realizzazione.
Ma allora tutto è vanità, come esordisce amaramente il profeta del Qoelet? Nient’affatto. Se non si rescindono i legami originari con gli altri, e anche con la vita intera incontrata nel singolo vivente che dipende dal nostro corrispondere responsabile, si ha sempre la possibilità di plasmare il sorgivo ‘sì alla vita’ che sgorga dalle profondità del Sé e che si modula nella pindarica esortazione “divieni ciò che sei”. Queste celeberrime parole di un’ode di Pindaro, che divennero poi il leitmotiv della meditazione di Nietzsche, non cadono nel vuoto di una retorica insopportabile se, e solo se, prendono corpo in un concreto progetto interpersonale, mirato a obiettivi determinati. Lo aveva ben compreso Heidegger nel suo capolavoro, Essere e tempo, non macchiato dalla successiva adesione al nazionalsocialismo: è la decisione rivolta all’attuazione delle possibilità autentiche inscritte in ciascuno di noi, che dà senso al vivere, intrinsecamente, a prescindere dai risultati conseguiti, perché ci apre alla dimensione aurorale dell’Aperto, nello spazio fluido delle possibilità allo stato nascente, nella plasticità della vita sempre al primo giorno, fino all’ultimo dei giorni.
Ora, di questo cimento la felicità è una componente possibile, ma non indispensabile; lo sono invece i sentimenti della sincerità, dell’amicizia, della lealtà. Certo, la realizzazione di un progetto può essere vanificata da circostanze fortuite, o dalla malvagità e dall’invidia, ma l’avventura dell’esistenza, e delle idealità che plasticamente forgiamo in essa, anche in questa infausta eventualità rimarrà per sempre scolpita in un’eternità esistenziale di un attimo indistruttibile, insieme a tutti i legami autentici inscritti in esso, splendidamente espressa nelle immagini finali del film di Sorrentino Le conseguenze dell’amore.
Posillipo si chiama una delle parti più incantevoli di Napoli: il suo nome viene dal greco Pausilypon, “tregua dal pericolo”, oppure, e non alternativamente, “ciò che fa cessare il dolore”. Già al tempo dei Romani era considerato uno dei posti più belli, incastonato a mo’ di gemma preziosa in uno de più bei golfi del mondo di allora, riservato a pochissimi privilegiati: il suo nome invitava a non trovare nelle realizzazioni parziali dei propri progetti di vita niente più che stazioni di un lungo cammino, pause dal dolore, ossia luoghi di sosta, conforto e sostegno del cammino che ancora ci attende. Eppure, se la felicità concretamente attingibile è soltanto una provvisoria pausa dalla sofferenza, in essa si può costruire qualcosa, portare avanti imprese sensate, e anche amare: non a caso la marina di Posillipo è Marechiaro (Marechiare o Marechiaru nella lingua napoletana), con la sua fenestrella e il vaso di fiori sul davanzale immortalati dal poeta Salvatore Di Giacomo nella lirica omonima, che è una delle più belle canzoni d’amore di tutti i tempi.

Autore del testo: Sandro Mancini

Immagine: Ed Chat