Un portfolio fotografico sintetizza la forza di una mostra, che è un reportage globale nella cultura del tempo. Karine Bauzin ha girato il mondo chiedendo: What Tme is It? Per vedere l’effetto che fa

Words Giovanni Audiffredi

Le immagini che compongono il lavoro di Karine Bauzin, fotografa svizzera che vive a Ginevra, sono la risposta ad un quesito apparentemente banale: What Time is It? Non ci fermiamo a riflettere su una delle prime domande che si impara a porre quando si studia la lingua inglese. Indice del fatto che sapere con precisione in quale momento della giornata ci si trova ha ancora un grande senso. Nel replicare si pone in atto un gesto specifico. Si rivolge lo sguardo al braccio sul quale è allacciato l’orologio. In quel preciso istante il movimento del corpo genera un linguaggio. La voce ne è la diretta conseguenza specifica.

Davone Tines
Tolia Astaksishvili
Oona Doherty
Ho Tzu Nyen
Moor Mother
Anna Thorvaldsdottir
Sam Eng
Kantemir Balagov
Fox Maxy
Dalton Paula
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A Ginevra, durante la grande fiera di Watches and Wonders, Karine Bauzin ha esposto le 80 fotografie del suo lavoro cronachistico, che vira nella ricerca di costume e indaga la visione dell’identità del tempo su differenti fusi orari e nei luoghi più disparati del pianeta.
La sua è una ricerca durata dieci anni, che assume quasi un sapore antropologico. Per centinaia e centinaia di volte ha domandato: What Time is It; e ha immortalato in uno scatto l’istante della risposta. Karin racconta che l’idea di questo progetto è nata durante un viaggio in Sudafrica, quando il padre la portò a visitare una riserva naturale e poi le chiese che ora fosse. Forse in quel contesto, davanti alla potenza della natura, quella richiesta le sembro estemporanea. La colpì al punto da iniziare un viaggio particolare attraverso la conquista del polso da parte della cultura del tempo rappresentata dall’industria orologiera.

Karine Bauzin
Karine Bauzin, "What time is it?", Ginevra 2023

Karine racconta che, per esempio, quando si trovava ad Atene: «Dopo aver scattato questa foto, mi sono venute in mente alcune immagini di Martin Parr sui turisti all’Acropoli. Quest’uomo, con il suo apparecchio per i denti, mi ha sedotto. Tra la sua camicia blu, il cielo blu e questo luogo turistico, avevo davanti a me un’immagine del tempo che si fermava». Oppure che a Nara, in Giappone: «Era la fine di maggio. I ciliegi avevano finito di fiorire e il parco era invaso dai cervi. Vidi un giardiniere che indossava il jikatabi, scarpe con una sola punta, che era appena sceso dall’albero. Sembrava uscito da un manga. Mi raccontò l’ora in un’atmosfera magica. Mi chiedevo se fosse reale o se stessi sognando». E ancora di quella volta che a Barcellona: «Con i suoi 1100 metri di lunghezza, la spiaggia della Barceloneta attira giovani, skateboarder e rocker. La palestra all’aperto è gratuita e la gente viene qui ad allenarsi. Questo giovane si stava allenando con gli amici. Il suo rapporto con il tempo è discontinuo: guarda l’orologio per contare gli squat e le flessioni. Mentre mi dice l’ora, continua il suo allenamento da dietro. In effetti, è l’unico che ho fotografato di spalle».
C’è sicuramente del surrealismo in questo lavoro. Però ci aiuta a comprendere quanta parte abbia un orologio, come strumento, nel nostro quotidiano. E quanta nel nostro futuro. Che facciamo partire dal momento in cui chiediamo: Sorry, please, What Time is It.